Vuoi sapere qual è uno dei termini più comunemente usati male nel processo di assunzione?
Culture fit.
Ogni volta che chiedo a un recruiter, intervistatore o manager di spiegare la cultura della propria azienda, ottengo spesso risposte soggettive e piene di cliché, che riflettono più una prospettiva personale su come quella persona “percepisce” l’azienda piuttosto che una definizione concreta. Spesso, ciò che sento è più allineato al social fit. Frasi come “andiamo tutti d’accordo, socializziamo insieme, abbiamo molte cose in comune” e “siamo come una famiglia” sono all’ordine del giorno.
Tutto questo suona un po’ confuso. E per me, questo è spaventoso perché molte delle nostre decisioni di assunzione sembrano dipendere da queste sensazioni difficili da spiegare, dalle intuizioni e dal cosiddetto “fattore di simpatia”.
Non capire la differenza fondamentale tra cultural fit e social fit costa alle aziende migliaia di euro a causa di processi di selezione falliti, posti vacanti non coperti, aumento dei costi con le agenzie, tentativi ripetuti di trovare candidati ideali e, in definitiva, cattive assunzioni.
Questo fenomeno danneggia anche la reputazione dei datori di lavoro, poiché candidati con competenze straordinarie e esperienze valide vengono rifiutati nonostante abbiano superato colloqui complessi e siano perfettamente in linea con i requisiti del lavoro.
Cos’è il “fattore di simpatia”?
Cerchiamo sicurezza e familiarità negli altri. Assumiamo persone che ci piacciono perché rispecchiano noi stessi, altre persone che ci piacciono o che hanno un background e credenze simili. Questo bias di affinità è uno dei più potenti e influenti nel recruitment e nell’assunzione, alimentando quel mitico “istinto” e portando a team omogenei, pieni di persone simili.
Tuttora vedo molte persone giustificare le loro decisioni di assunzione basate sul social fit e sulla simpatia, e questa pratica spesso non viene messa in discussione. A mio parere, questo rappresenta il rischio più grande per tutti gli sforzi di diversità, inclusione e equità nel processo di selezione aziendale.
Celeste Bolognese, CEO di Best Tech Partner, afferma che “il reclutamento basato sulla simpatia è un grave ostacolo per costruire team diversificati e ad alte prestazioni. Le aziende devono imparare a distinguere tra la ricerca di un vero cultural fit e il semplice desiderio di assumere persone con cui ci troviamo a nostro agio”.
Perché il “fattore simpatia” ostacola la diversità e le performance aziendali
Nel tempo, l’assunzione basata sulla simpatia può portare a una disconnessione tra le competenze necessarie per far crescere il business e le reali capacità delle persone che vengono assunte. Ho visto molte volte situazioni in cui un candidato viene assunto perché è “piaciuto”, ma poi non si è rivelato adatto in termini di prestazioni o allineamento con i valori aziendali.
Costi reali
Non dimentichiamo i costi legati al reclutamento. Chiedo spesso ai manager di calcolare le perdite finanziarie di ogni progetto di selezione fallito. I numeri diventano spaventosi, e spesso si parla di cifre a sei zeri. Se individuassimo una perdita simile in qualsiasi altra area del business, faremmo di tutto per risolverla immediatamente.
Il “culture fit” è importante, giusto?
Assolutamente, se viene affrontato correttamente. Non c’è nulla di sbagliato nel cercare di capire se qualcuno si integrerà bene nel team e avrà successo nel nostro ambiente di lavoro. Questo è fondamentale per l’inclusione e per la retention. Ma dobbiamo essere in grado di definire chiaramente la nostra cultura prima di poter valutare se un candidato è allineato con essa.
Iniziamo definendo la cultura aziendale
Uno dei problemi più comuni è che i recruiter e i manager non riescono a definire chiaramente la propria cultura aziendale. Se questo pezzo manca, come possono fare le domande giuste durante il colloquio? È fondamentale comprendere i valori, le credenze e i comportamenti che guidano il business e che vengono vissuti quotidianamente da tutti, non solo aspirazioni aziendali scritte su un muro.